I’m going back to India: da Gokarna a Varanasi (13-14-15 febbraio 2017)

Da Gokarna a Kumta, in direzione Mumbai, 13-14 febbraio 2017.

Raggiungo, in autobus, la stazione ferroviaria di Kumta, una cittadina che sta ad un’ora di strada da Gokarna. Devo prendere il Mumbai express delle 16.55 che arriverà sul binario uno. Ci sono parecchi bancari, uomini e donne con le loro famiglie che lo stanno aspettando. Sono venuti  a Kumta per un incontro di formazione, ma hanno approfittato dell’occasione per salutare i loro parenti, che qui risiedono.  L’altoparlante annuncia che, il nostro treno, avrà un ritardo di due ore e mezza. C’è una coppia di polacchi seduta al sole, su una delle panchine che fiancheggiano il primo binario. Hanno diverse  valigie accanto a loro e stanno attendendo un altro treno ritardatario, sempre diretto a Mumbai. Fa caldissimo! Vado a sedermi all’ombra, sulla scalinata che porta ai binari, accanto a due anziani indiani. In quel momento arriva la voce dell’altoparlante che annuncia il ritardo anche del loro treno. Gli indiani sono abituati a questi ritardi e li motivano come problemi tecnici. I due indiani sono degli operatori finanziari di Bangalore,  che han trascorso qui, a Kumta, una giornata di aggiornamento e stanno rientrando a casa. A Mumbai avrò la coincidenza con il treno per Varanasi alle 11.00 di domattina e con il ritardo annunciato, sarò là alle sei e mezza. In realtà, arriverò a Mumbai soltanto mezz’ora prima della partenza del treno. Nello scompartimento incontro una coppia di jainisti: hanno 44 anni lei e 46 lui. Mi parlano dei loro due figli, di 18 e 22 anni, e delle particolarità della loro religione. Sono jainisti della corrente Svetambara: mangiano soltanto dopo il sorgere del sole e non consumano i pasti dopo il tramonto; sono strettamente vegetariani; non usano i servizi igienici per i bisogni fisiologici, ma l’aperta campagna (quando non stanno in città). I loro guru vestono di bianco e portano la mascherina dello stesso colore davanti alla bocca, mentre quelli dell’altra corrente, i Digambara, vanno in giro nudi. La coppia, con i due figli, vive a Mumbai, nella casa dei genitori del marito e insieme a loro. Marito e moglie appartengono entrambi alla casta più alta, mi dicono, quella che precede i bramini e provengono da famiglie appartenenti  alla medesima religione. Lui, ha frequentato, dopo la dodicesima classe, tre anni di scuola superiore e un master, poi, di quattro anni. Di lavoro fa il rappresentante di medicinali mentre, la moglie, ha frequentato fino alla decima classe e si occupa della casa. Ora stanno rientrando dal pellegrinaggio ad un tempio jainista di Mangalore. Ci scambiamo i nostri numeri di telefono e ci promettiamo di fare il possibile per incontrarci ancora. Nello stesso scompartimento, viaggiano con noi due sorelle, di 17 e 22 anni, vestite all’occidentale e un indiano abbastanza avanti con gli anni. Le ragazze abitano in un villaggio vicino a Mangalore e sono studentesse, mi raccontano, una del primo e l’altra del quinto anno di una scuola superiore di Mumbai. Questo specifico viaggio riguarda degli affari. Parlano un buon inglese, sono molto educate e cortesi, hanno due bei orologi ai polsi, non portano libri con loro e sono sempre impegnate a guardare lo smarthphone. L’uomo, che le accompagna, è quasi pelato e porta un paio di baffetti sottili, molto curati; indossa una camicia rosa, una catena d’oro al collo e due grossi anelli all’indice e all’anulare della mano destra. Amoreggia di continuo con la ragazza più giovane che corrisponde alle sue fusa accarezzandogli il viso. Quando scenderanno, in una stazione periferica di Mumbai, le due ragazze mi saluteranno porgendomi la mano e l’uomo mi guarderà con un sorriso.

Mumbai,14 febbraio 2017. Railway station.

Mumbai, 14 febbraio 2017. Railway station.

Da Mumbai a Varanasi, 14-15 febbraio 2017

Case addossate alla ferrovia, palazzi più distanti con terrazzini e finestre chiusi da reti e sbarre. Dopo Mumbai,  lunghe file di casette isolate, basse e attaccate, corsi d’acqua sporchi e immondizie sparse ovunque, alternate da discariche con fili di fumo che si sprigionano lentamente, sollevandosi nell’aria. Una leggera foschia avvolge tutto il paesaggio che sta intorno alla periferia di Mumbai. Sulle strade si vedono enormi cilindri ammassati, in attesa di essere utilizzati per le fognature in costruzione. In un piazzale periferico ci sono lunghi treni merci composti da vagoni-cisterna arruginiti che paiono in disuso. Ogni volta che il treno rallenta per entrare nelle stazioni più importanti si incrociano altri convogli che viaggiano con le portiere aperte e la gente in piedi che quasi sporge fuori. Guardando dall’altra parte del finestrino si vedono degli operai che lavorano sui binari, accanto ad immensi cumuli di immondizie, sparse qua e là. Un giovane infermiere del Karnataka sta andando a Varanasi dove lavora in un ospedale governativo. Per diventare infermiere, dopo il dodicesimo anno di scuola, ha proseguito gli studi per tre anni frequentando, di seguito, un tirocinio di quattro anni. A tre ore di distanza da Mumbai la campagna si trasforma: da arida e secca si fa più verde.  I campi sono coltivati con pomodori, legumi, granoturco, cipolle, riso e compaiono donne e uomini impegnati nel lavoro agricolo. Si vedono delle lagune, poi, una montagna isolata, quasi a forma di cono che si alza tra la fila di colline che la sostengono. Siamo a Mammad, mi dicono degli indiani. Nei campi si vede il frumento già maturo e, più avanti, emergono delle distese di granoturco già alto, campi di cotone con la bambagia matura e la gente impegnata a raccoglierlo. Compaiono le piantagioni di banani con le piante nuove, ancora piccole e altre, con le palme un po’ più grandi. Il treno sta rallentando e ora, prima della stazione, sale un ragazzo con un grosso zaino sulle spalle: lo apre, prende una specie di appendino e attacca su delle catene penzolanti. Con dei ganci appende una vasta scelta di giocattoli di plastica: cavallini a dondolo, mucche, pulcini, sonagli. Lo rivedrò, dopo qualche ora, quando il treno rallenterà di nuovo per entrare in un’altra stazione. In un attimo, rimetterà tutto nello zaino e scenderà prima che il treno si fermi. La mattina del 15 febbraio, alle 7.30, siamo a Manipur, nello Stato federale dell’Uttar Pradesh. Nel pieno della notte, con un gran frastuono di voci e rumori, sono arrivate due enormi donne con un giovane uomo. Stanno andando a Patna carichi di valigie e di borse, due delle quali, piene di coperte che utilizzeranno subito per ripararsi dal freddo e mettersi a dormire. Guardo fuori dal finestrino e vedo case e distese di campi contornati da muretti a secco, coltivazioni di frumento già alto, ancora banani, gruppi di mucche, vitelli e capre legati nei cortili delle abitazioni, pompe d’acqua con una grande ruota per attingerla. Intorno alle case agricole si vedono le varie composizioni geometriche create con lo sterco delle mucche, messo ad essiccare. Poco prima di Allahbad compare una lunga fila di fornaci, di mattoni e di cemento, con le ciminiere rossastre e grigie che si alzano, fumanti, su verso il cielo. Il treno arriva a Varanasi alle 12.15, in perfetto orario. La stazione di Mughal Sarai è parecchio distante dalla città: contratto il prezzo del autorisciò, ma poi mi devo rassegnare a pagare 200 rupje. E’ un prezzo onesto, mi dirà mio figlio più tardi.

 

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