Istanbul (Turchia), 2 aprile 2019

Oggi, tutte le foto scattate con tanto impegno, nei diversi  luoghi attraversati, non so perchè, sono andate perse.

Dalla mattina fino a quasi sera ho ripercorso, lentamente, il tragitto effettuato ieri con la guida, e, Istanbul, mi sta piacendo molto. C’ero già stata qui: una prima volta, quasi 40 anni fa, nel 1980, quando ero in coppia con Armando. Eravamo arrivati in auto e dormivamo in tenda, in un campeggio della periferia di Istanbul. Poi, ero tornata nel 1988, 21 anni fa, con mio figlio, che allora aveva 17 anni. Stavamo in un appartamento di un’amica, nella Istiklal Caddesi, nei pressi della torre di Galata, dall’altra parte del ponte. Oggi, esco dal mio raffinato ostello a metà mattinata, salgo lungo la riva della vicina Ayasofia street e attraverso l’Arasta Bazaar. Questo mercato è piccolo ed elegante; pare nuovo con i suoi diversi negozi di cuscini, tappeti, profumi, piastrelle, abiti e bigiotterie varie. Arrivo alla Sultan Ahmet Camii, la moschea del sultano Ahmet Camii, meglio conosciuta come Moschea Blu. E’ stata costruita tra il 1603 e il 1617 ed è un capolavoro di armonia ed equilibrio, tra le proporzioni degli elementi che la compongono. La piccola cupola posta in alto, sopra il portale dell’entrata aveva lo scopo di indurre il visitatore a sollevare lo sguardo verso il cielo. Ci sono anche altre cupole e semicupole che attirano l’attenzione della gente; queste si susseguono numerose e vanno a raggiungere la grande cupola e i sei minareti che s’innalzano verso il cielo. L’interno della Moschea Blu è immenso: i rivestimenti delle cupole e delle pareti con le maioliche dai colori blu, rosso e verde sullo sfondo bianco creano un effetto magico. Anche le vetrate colorate sono suggestive. I pavimenti sono coperti da una moquette che ricorda i disegni dei tappeti tradizionali. Anche le 6 colonne che sostengono l’edificio sono mastodontiche, in pietra e con le forme arrotondate. All’interno si possono osservare degli uomini e delle donne che stanno pregando, separatamente, negli spazi a loro riservati. In fondo, su un davanzale ci sono dei libretti per bambini e per adulti, scritti in diverse lingue, che contengono delle spiegazioni riguardo ai valori di riferimento della religione musulmana. In un libro a parte c’è anche la versione del Corano, tradotta in varie lingue, tra le quali anche l’italiano e ne prendo una copia. Esco dalla Moschea Blu e mi sposto verso Santa Sofia. Lì, l’entrata è a pagamento, 600 lire turche, l’equivalente di 10,00 euro. Le file di attesa per l’acquisto del biglietto sono lunghissime. Lascio perdere, per oggi, e raggiungo il Nurvosmaniye social complex e la moschea Nur-U Osmani che ne fa parte. Costruita in stile barocco durante l’era di Osman, tra il 1749 e il 1755, questa moschea è alta 24 metri ed ha 124 finestre e due alti minareti. L’interno è bianco ed ha un enorme lampadario circolare che arriva molto in basso nel salone. La moschea ha qualche altro piccolo elemento barocco sia nella biblioteca che nella tomba e nella fontana pubblica che la compongono. Lì accanto c’è il Gran Bazaar che si apre con una grande galleria dal tetto a botte e con diversi rivestimenti in maiolica e il pavimento in pietra. Sul portale dell’ingresso compare la data del 1461. L’interno è affollato di gente che cammina e si ferma nei vari negozi. Ci sono botteghe di dolciumi, frutta secca, gioielli, bigiotteria, amuleti con l’Occhio di Fatima, contro il malocchio. E ci sono molti negozi di scialli, foulard, vestiti e tappeti: tutta merce molto raffinata. Un negoziante mi ferma per mostrarmi degli scialli. Ha la carnagione molto chiara; difatti, i suoi genitori sono originari dalla Bosnia e sono arrivati a Istanbul una quarantina di anni fa, quando lui era piccolo. Guardando alcune parti piastrellate del bazar, come la grande fontana rivestita in maiolica e alcuni archi simili mi tornano in mente, lentamente, le immagini che anche in passato mi erano rimaste impresse. Questa parte del Gran Bazar è stata restaurata e le cupole in mattoni sono ben conservate. Accanto ad un negozio di dolci incontro un ragazzo pakistano che lavora lì. Mi mostra la sua carta d’identità, una tessera elettronica con la bandiera turca stampata in alto. Mi dice che in Pakistan c’è una grande crisi economica e manca il lavoro anche nella grande metropoli economica di Karachi. Mi muovo piano, piano e osservo il gran via vai di uomini che corrono qua e là con un vassoio tondo, appeso a tre ganci tenuti insieme da un anello.Vanno a portare i bicchieri pieni di cjai nei negozi. Come riescano a non versare nemmeno una goccia di the non l’ho mai capito. Esco dal Gran Bazar proprio dal portale che sta nella direzione del ponte di Galata. Fa freddo, ma ora c’è il sole e la temperatura è più mite. Questa zona si chiama Eminonu ed ha una grande moschea che si vede in lontananza e pare nuova. Il piazzale è pieno di gente seduta sulle panchine a chiacchierare. Qui, ci sono molti negozi di formaggio, frutta secca, salumi, pesce, carne e dolci. Ci sono anche dei carretti che vendono delle ciambelle di pane dolce. Poco più là, c’è anche l’entrata con lo screening per lo Spice Bazar, il mercato egiziano delle spezie. Su una pietra del portale, accanto al nome, è riportata la data: 1597-1664. Cerco una rivendita di pane per farmi un panino al formaggio, ma non la trovo. Compro una ciambella dolciastra dal carrettino e dei filamenti di formaggio in un negozio e pranzo così. Poi, da un venditore ambulante prendo il cjai. Attraverso il ponte di Galata e, vedo con sorpresa che, sia nel piazzale che lo precede, sia sotto i pilastri c’è una lunga fila di ristorantini che offrono dei cibi allo stesso prezzo o forse meno del mio pane e formaggio con il cjai.

Istanbul (Turchia), 1 aprile 2019

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Istanbul, 1 aprile 2019. Sultanahmet

L’ostello dove alloggio si trova a Sultanahmet, accanto alla Moschea Blu e all’antica chiesa-museo di Santa Sofia. L’ostello, ha organizzato per i suoi ospiti  un giro gratuito, a piedi, per la vecchia Istanbul.

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La Moschea Blu

Il gruppo di turisti è composto da una decina di persone: un ragazzo di Teheran che si occupa di import-export con la Turchia e la Cina, un ragazzo del Nord Carolina che studia storia europea e americana all’università di Berlino, una coppia e un ragazzo di Buenos Aires che viaggiano insieme e sono colleghi di lavoro. I tre argentini, prima di arrivare a Istanbul, hanno visitato: Gerusalemme e Tel Aviv in Palestina e Israele e Petra, in Giordania. Ora, proseguiranno il loro viaggio verso la Cappadocia e Pamukkale.

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Sullo sfondo la chiesa-moschea-museo di Santa Sofia.

Le due ragazze brasiliane si conoscono da diversi anni: una è ingegnere e l’altra sta facendo un dottorato di ricerca sugli interessi politici e il rapporto con la tecnologia dei giovani brasiliani. La ricercatrice, ora vive a Siviglia, in Spagna, dove è seguita da un professore esperto in questa problematica. Le due amiche si sono incontrate in Francia e insieme sono arrivate ad Istanbul. Proseguiranno il viaggio per Bucarest e, di seguito, visiteranno Atene, spostandosi in aereo. Dopo Atene, l’ingegnere tornerà nella sua città, a San Paulo del Brasile mentre la ricercatrice andrà, di nuovo, a Siviglia per un po’ di tempo.

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Il Bazar.

Nel gruppo, ci sono, poi: Tatiana, del Kazakistan, impiegata in una ditta farmaceutica, che viaggia con il figlio quattordicenne. Loro due, prima di Istanbul hanno visitato Dubai e il ragazzo è rimasto deluso da questa città.

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Bottega del Vecchio Bazar.

Infine, c’è una ragazza russa, Jane, che vive nei dintorni di San Pietroburgo e sta viaggiando da sola, senza un programma preciso. Ha 40 anni e una figlia di 10 avuta dal suo secondo matrimonio. Jane è titolare di una palestra di fitness che resterà chiusa per i 15 giorni della vacanza che si è presa.

Usciti dall’hostel con la guida, arriviamo in un piazzale, lì accanto, dove ammiriamo: da una parte la Moschea Blu e dall’altra Santa Sofia.

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Controlli ad un’entrata del bazar.

Oggi, entrambe queste moschee non sono visitabili. Su indicazione del ragazzo che ci fa da guida, ci fermiamo in una sala da the dove è abitudine fumare anche il narghilè, la tradizionale pipa turca, e provo anch’io, per la prima volta, a tirare due boccate. Il sapore alla mela è gustosissimo, come anche il the, dello stesso aroma.

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Sala da the con “narghilè” .

Riprendiamo il cammino e passiamo davanti ad un palazzo con all’esterno una serie di tombe in pietra, risalenti a circa trecento anni fa, e appartenute alla famiglia di un sultano. Entriamo nel Vecchio bazar, una costruzione risalente a 2000 anni fa con all’interno ancora qualche antico laboratorio di gioielli.

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Selfie con il ragazzo di Teheran.

La struttura, in mattoni,  ha un’infinità di piccole cupole sul soffitto. Ora c’è qualche parte transennata qua e là e sembra in attesa di qualche intervento di restauro. Attraversiamo, di seguito, il Bazar delle spezie, molto affollato e pieno di negozi carichi di ogni varietà di merce.

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Panorama dai tetti di Istanbul.

Da lì, saliamo su una terrazza ad ammirare il panorama splendido che si apre su Istanbul e il Bosforo. Il ragazzo che ci fa da guida è molto comunicativo e preparato. Senz’altro, la gratuità del giro turistico è legata a qualche accordo con gli esercizi commerciali della zona, perché, dopo aver attraversato il fantastico ponte di Galata, con la fila di pescatori sempre indaffarata a gettare l’amo, ci fermiamo ancora.

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Pescatori sul ponte di Galata.

La tappa successiva è il pranzo in un ristorante da lui indicato e poi, di seguito, una sosta in una pasticceria, nei pressi dell’antica torre di Galata, sempre legata al programma del tour. Qui, la guida ci lascia e il gruppo dei turisti si divide. Alcuni tornano all’ostello, altri prendono il traghetto per andare ad ammirare il tramonto sull’altra sponda, un terzo gruppo segue la madre e il figlio del Kazakistan in giro nei vari negozi e al bazar per cercare un paio di scarpe numero 45 che non riescono a trovare. Mi associo a quest’ultimo gruppo e insieme percorriamo l’affascinante Istiklal Caddesi, il viale della Resistenza, che un tempo si chiamava Grande Rue de Péra, a Sud-Ovest, della grande piazza di Taxsim.

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Panorama dal ponte di Galata.

Le scarpe numero 45 non si trovano da nessuna parte. Torniamo con un taxi collettivo al Balik Pazar dove c’è una vasta zona dedicata soltanto alle calzature; giriamo in lungo e in largo senza alcun risultato.

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La Istiklal Caddesi.

Alla fine, ecco una piccola varietà di scarpe, proprio con questo numero. Il ragazzo del Kazakistan sorride soddisfatto, con il suo grande pacco tra le mani, mentre ritorniamo insieme verso l’ostello.

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Da Tabriz (Iran) a Istanbul (Turchia), 30-31 marzo 2019

Lascio Tabriz con un po’ di tristezza: la gente qui, è molto cordiale e umana e c’è molta attenzione per la storia e la cultura. Ho visto delle vaste rivendite di libri nuovi e usati, qua e là, nelle varie vie del centro. Ci sono, inoltre, diversi musei, antiche moschee e degli interessanti siti archeologici che caratterizzano questa città. Oggi pomeriggio partirò per la Turchia e ho poco tempo per fare un ultimo giro in centro e salutare questa accogliente città. Esco dall’hotel nella tarda mattinata e cammino un po’ a caso, seguendo il percorso della maggior parte della gente, ma facendo anche attenzione a non perdermi. Arrivo in un piazzale, all’esterno del mercato coperto, animata da numerosi banchi che vendono frutta, verdura e carne. Qui, ci sono già stata ieri, ma ero arrivata attraverso una delle tante uscite del bazar e, sia questo mercato che molti negozi della zona, erano chiusi. Sui banchi, oggi, sono esporti grandi quantità di: mele, arance, mandarini, banane, insalata, patate, cipolle, aglio, zucchine e pomodori. Una serie di bancarelle vendono, sfuso, un vasto assortimento di olive, cetrioli in salamoia e sottaceti. Altri negozi, lì accanto, espongono una grande varietà di frutta secca ed essiccata. Rimango soltanto nel mercato esterno; non m’arrischio ad entrare nel bazaar, avendo a disposizione un tempo troppo breve per esplorarlo e conoscendo la mia facilità a perdermi. Compro della frutta, due pomodori, dei pinoli e del formaggio per il pranzo e per il viaggio. In diverse postazioni, sulla strada, ci sono dei venditori di foglie inzuppate in un liquido: mi fanno segno che servono per avvolgere e cucinare dei cibi. Passo davanti ad un ristorante che vende l’”ash”, la tipica zuppa di piselli, cipolla, yoghurt e spaghetti e guardo dalla vetrina l’uomo che la sta sorbendo. Torno in hotel verso le 14:00. Il ceck out era alle 13:00, ma avevo capito a gesti che sarei potuta restare fino alle 15:30, l’ora della mia partenza per il Terminal dei bus. Invece, non parlando l’inglese, loro avevano inteso che sarei potuta rimanere nella sala del piano terra fino a quell’ora, con i bagagli già pronti. La donna delle pulizie e il marito della reception mi fanno una lunga predica, delle quale non capisco niente, naturalmente. Salgo nella stanza seguita dalla donna che non mi lascia con lo sguardo nemmeno un attimo. In pochi minuti metto tutte le mie cose negli zaini e scendo al piano terra a prepararmi il pranzo: pomodori, pane e formaggio. Il taxista che mi accompagna al Terminal con una grossa auto parla qualche parola d’inglese: ha 40 anni ed è il proprietario di un’organizzazione di 40 taxi. Lui mi dà la sua card scritta interamente in persiano, ma mi detta anche i suoi numeri di telefono: quello privato e quello dell’ufficio.

L’attesa al Terminal è lunga: l’autobus per Istanbul arriva da Teheran ed è in ritardo di quasi 2 ore. Lì, incontro un ragazzo di Tabriz che parla l’inglese: è uno studente di biologia all’università della sua città, ma ora sta lavorando come barman a Istanbul. Per raggiungere Istanbul, mi dice, ci vorranno 32 ore di viaggio. Questo ragazzo, con la sua lunga barba bionda, gli occhialini e il giaccone blu, sarà il mio punto di riferimento per tutto il viaggio verso Istanbul. Il pullman attraversa distese di campi arati, alternati da fabbriche, capannoni, palazzine e moschee anonime. Il paesaggio è piatto: qua e là qualche albero spoglio, dei frutteti. Più avanti compaiono le colline e in lontananza si vedono le montagne rivestite di neve. Lassù, sulle cime più elevate nevica. Accanto a dei piccoli centri abitati sfilano le bancarelle di frutta secca ed essiccata, chiusa in dei sacchetti di plastica. Alla frontiera turca scendo insieme agli altri passeggeri per i minuziosi controlli. Dobbiamo portare con noi tutti i bagagli. Una poliziotta mi perquisisce accuratamente, i bagagli non creano problemi, ma l’attesa del bus per ripartire è lunghissima. Fuori sta nevicando intensamente, fa freddo e non ci sono spazi per sedersi se non in terra. Chiacchiero con un ingegnere elettronico di Teheran che commercia in elementi elettronici per i cruscotti delle auto che importa dalla Cina, dalla Corea e dal Giappone. Ora sta raggiungendo Istanbul e da lì prenderà un volo per Amburgo, dove un amico lo sta attendendo. Rimango sorpresa per i diversi lucchetti con i quali tiene chiuse le tasche della cintura-borsello che porta legata intorno alla vita. Ha due figli: uno di 22 anni, che studia per diventare medico dentista e l’altro di 14 anni. A volte viaggia anche con la moglie, mi racconta. Spesso lei e il figlio piccolo lo raggiungono a Honk Kong dove rimangono per lunghi mesi e il figlio minore, in quel periodo, frequenta la scuola là. L’uomo mi parla del sistema scolastico iraniano che è suddiviso in tre parti: la prima va dai 6 ai 12 anni, la seconda, quella delle superiori, prosegue direttamente e termina all’età di 18 anni. Da qui, si può accedere all’università. Il livello della scuola statale iraniana, mi dice, è mediocre. Sempre alla frontiera turca, incontro un altro ragazzo: è di Teheran e sta viaggiando da solo. Assomiglia un po’ a Leonardo di Caprio, anche nel taglio dei capelli, ma lui dice che non è vero. Il suo lavoro consiste nel commerciare con la Turchia e la Cina dove esporta frutta secca, mentre importa laminati in legno. Un altro ragazzo iraniano, di Qazvin, vicino Teheran, lavora tra Istanbul e Milano e si occupa di stampe per bordi di piastrelle. Mentre sto parlando con lui, mi si avvicina una ragazza della stessa città per chiedere il mio numero di telefono. Lei, vorrebbe venire in Italia per studiare arte all’università. Entrambi questi ragazzi di Qazvin mi chiedono di inviare loro una lettera d’invito, necessaria per poter ottenere il visto per l’Italia.

E’ già passata la mezzanotte e siamo ormai al 31 marzo. Dopo oltre due ore di attesa al confine, riprendiamo il viaggio verso Istanbul. L’autobus s’innerpica lungo le strade montuose, tra la neve che cade e s’ammucchia sulla strada e tutt’intorno. Il pullman procede lentamente tra le numerose pinete, anche piantate di recente, che arrivano fin sulla strada. Non nevica più ora, ma il paesaggio a tratti è avvolto da una fitta nebbia. Più avanti, arriva un raggio di sole. A momenti, tra le montagne basse e ondeggianti, appaiono dei gruppi di case gialle, che sembrano prefabbricate. Poi, più in là, altre case, piccole e con i tetti di tegole e inclinati. Ora stiamo scendendo notevolmente e anche la neve si sta diradando. Siamo ad Imranli, una città caratterizzata da case basse, moschee, palazzi alti e palazzine, un grande cimitero e tutt’intorno distese di campi e colline coltivati a riso e frumento.

Ci stiamo avvicinando ad Ankara e l’attraversiamo all’esterno, lateralmente e la guardiamo dall’alto. Da una parte della strada si vedono delle mucche al pascolo e dei greggi di pecore, quasi tutte bianche. Attraversiamo ancora qualche collina, con piantagioni di abeti recenti. Dall’alto vediamo illuminati, ancora per un lungo tratto, un gran susseguirsi di case, palazzi e palazzine abitati e molti in costruzione che si delineano fitti, insieme alle fabbriche, nelle zone ondeggianti dei pianori e delle alture. Mi addormento e mi sveglio con della musica un po’ zigana e le luci tutte accese dell’autobus. E’ appena passata la mezzanotte e siamo arrivati a Istanbul. E’ il primo giorno di aprile!