Da Tabriz (Iran) a Istanbul (Turchia), 30-31 marzo 2019

Lascio Tabriz con un po’ di tristezza: la gente qui, è molto cordiale e umana e c’è molta attenzione per la storia e la cultura. Ho visto delle vaste rivendite di libri nuovi e usati, qua e là, nelle varie vie del centro. Ci sono, inoltre, diversi musei, antiche moschee e degli interessanti siti archeologici che caratterizzano questa città. Oggi pomeriggio partirò per la Turchia e ho poco tempo per fare un ultimo giro in centro e salutare questa accogliente città. Esco dall’hotel nella tarda mattinata e cammino un po’ a caso, seguendo il percorso della maggior parte della gente, ma facendo anche attenzione a non perdermi. Arrivo in un piazzale, all’esterno del mercato coperto, animata da numerosi banchi che vendono frutta, verdura e carne. Qui, ci sono già stata ieri, ma ero arrivata attraverso una delle tante uscite del bazar e, sia questo mercato che molti negozi della zona, erano chiusi. Sui banchi, oggi, sono esporti grandi quantità di: mele, arance, mandarini, banane, insalata, patate, cipolle, aglio, zucchine e pomodori. Una serie di bancarelle vendono, sfuso, un vasto assortimento di olive, cetrioli in salamoia e sottaceti. Altri negozi, lì accanto, espongono una grande varietà di frutta secca ed essiccata. Rimango soltanto nel mercato esterno; non m’arrischio ad entrare nel bazaar, avendo a disposizione un tempo troppo breve per esplorarlo e conoscendo la mia facilità a perdermi. Compro della frutta, due pomodori, dei pinoli e del formaggio per il pranzo e per il viaggio. In diverse postazioni, sulla strada, ci sono dei venditori di foglie inzuppate in un liquido: mi fanno segno che servono per avvolgere e cucinare dei cibi. Passo davanti ad un ristorante che vende l’”ash”, la tipica zuppa di piselli, cipolla, yoghurt e spaghetti e guardo dalla vetrina l’uomo che la sta sorbendo. Torno in hotel verso le 14:00. Il ceck out era alle 13:00, ma avevo capito a gesti che sarei potuta restare fino alle 15:30, l’ora della mia partenza per il Terminal dei bus. Invece, non parlando l’inglese, loro avevano inteso che sarei potuta rimanere nella sala del piano terra fino a quell’ora, con i bagagli già pronti. La donna delle pulizie e il marito della reception mi fanno una lunga predica, delle quale non capisco niente, naturalmente. Salgo nella stanza seguita dalla donna che non mi lascia con lo sguardo nemmeno un attimo. In pochi minuti metto tutte le mie cose negli zaini e scendo al piano terra a prepararmi il pranzo: pomodori, pane e formaggio. Il taxista che mi accompagna al Terminal con una grossa auto parla qualche parola d’inglese: ha 40 anni ed è il proprietario di un’organizzazione di 40 taxi. Lui mi dà la sua card scritta interamente in persiano, ma mi detta anche i suoi numeri di telefono: quello privato e quello dell’ufficio.

L’attesa al Terminal è lunga: l’autobus per Istanbul arriva da Teheran ed è in ritardo di quasi 2 ore. Lì, incontro un ragazzo di Tabriz che parla l’inglese: è uno studente di biologia all’università della sua città, ma ora sta lavorando come barman a Istanbul. Per raggiungere Istanbul, mi dice, ci vorranno 32 ore di viaggio. Questo ragazzo, con la sua lunga barba bionda, gli occhialini e il giaccone blu, sarà il mio punto di riferimento per tutto il viaggio verso Istanbul. Il pullman attraversa distese di campi arati, alternati da fabbriche, capannoni, palazzine e moschee anonime. Il paesaggio è piatto: qua e là qualche albero spoglio, dei frutteti. Più avanti compaiono le colline e in lontananza si vedono le montagne rivestite di neve. Lassù, sulle cime più elevate nevica. Accanto a dei piccoli centri abitati sfilano le bancarelle di frutta secca ed essiccata, chiusa in dei sacchetti di plastica. Alla frontiera turca scendo insieme agli altri passeggeri per i minuziosi controlli. Dobbiamo portare con noi tutti i bagagli. Una poliziotta mi perquisisce accuratamente, i bagagli non creano problemi, ma l’attesa del bus per ripartire è lunghissima. Fuori sta nevicando intensamente, fa freddo e non ci sono spazi per sedersi se non in terra. Chiacchiero con un ingegnere elettronico di Teheran che commercia in elementi elettronici per i cruscotti delle auto che importa dalla Cina, dalla Corea e dal Giappone. Ora sta raggiungendo Istanbul e da lì prenderà un volo per Amburgo, dove un amico lo sta attendendo. Rimango sorpresa per i diversi lucchetti con i quali tiene chiuse le tasche della cintura-borsello che porta legata intorno alla vita. Ha due figli: uno di 22 anni, che studia per diventare medico dentista e l’altro di 14 anni. A volte viaggia anche con la moglie, mi racconta. Spesso lei e il figlio piccolo lo raggiungono a Honk Kong dove rimangono per lunghi mesi e il figlio minore, in quel periodo, frequenta la scuola là. L’uomo mi parla del sistema scolastico iraniano che è suddiviso in tre parti: la prima va dai 6 ai 12 anni, la seconda, quella delle superiori, prosegue direttamente e termina all’età di 18 anni. Da qui, si può accedere all’università. Il livello della scuola statale iraniana, mi dice, è mediocre. Sempre alla frontiera turca, incontro un altro ragazzo: è di Teheran e sta viaggiando da solo. Assomiglia un po’ a Leonardo di Caprio, anche nel taglio dei capelli, ma lui dice che non è vero. Il suo lavoro consiste nel commerciare con la Turchia e la Cina dove esporta frutta secca, mentre importa laminati in legno. Un altro ragazzo iraniano, di Qazvin, vicino Teheran, lavora tra Istanbul e Milano e si occupa di stampe per bordi di piastrelle. Mentre sto parlando con lui, mi si avvicina una ragazza della stessa città per chiedere il mio numero di telefono. Lei, vorrebbe venire in Italia per studiare arte all’università. Entrambi questi ragazzi di Qazvin mi chiedono di inviare loro una lettera d’invito, necessaria per poter ottenere il visto per l’Italia.

E’ già passata la mezzanotte e siamo ormai al 31 marzo. Dopo oltre due ore di attesa al confine, riprendiamo il viaggio verso Istanbul. L’autobus s’innerpica lungo le strade montuose, tra la neve che cade e s’ammucchia sulla strada e tutt’intorno. Il pullman procede lentamente tra le numerose pinete, anche piantate di recente, che arrivano fin sulla strada. Non nevica più ora, ma il paesaggio a tratti è avvolto da una fitta nebbia. Più avanti, arriva un raggio di sole. A momenti, tra le montagne basse e ondeggianti, appaiono dei gruppi di case gialle, che sembrano prefabbricate. Poi, più in là, altre case, piccole e con i tetti di tegole e inclinati. Ora stiamo scendendo notevolmente e anche la neve si sta diradando. Siamo ad Imranli, una città caratterizzata da case basse, moschee, palazzi alti e palazzine, un grande cimitero e tutt’intorno distese di campi e colline coltivati a riso e frumento.

Ci stiamo avvicinando ad Ankara e l’attraversiamo all’esterno, lateralmente e la guardiamo dall’alto. Da una parte della strada si vedono delle mucche al pascolo e dei greggi di pecore, quasi tutte bianche. Attraversiamo ancora qualche collina, con piantagioni di abeti recenti. Dall’alto vediamo illuminati, ancora per un lungo tratto, un gran susseguirsi di case, palazzi e palazzine abitati e molti in costruzione che si delineano fitti, insieme alle fabbriche, nelle zone ondeggianti dei pianori e delle alture. Mi addormento e mi sveglio con della musica un po’ zigana e le luci tutte accese dell’autobus. E’ appena passata la mezzanotte e siamo arrivati a Istanbul. E’ il primo giorno di aprile!

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