Da Kashan a Teheran, 25 marzo 2019

Oggi piove! E’ il primo giorno di pioggia, così intensa e continua, durante tutta la giornata, che incontro, in questo viaggio. Alle 11.30, il marito della titolare dell’agenzia di viaggi mi accompagna al Terminal, dove partono gli autobus per Teheran. Ha 40 anni, è piccolo, grasso e tozzo. Il suo ruolo all’interno dell’agenzia è un po’ quello di assecondare il lavoro della moglie, rimanendo ai margini. Ha avuto, da poco, un incidente e il muso della sua auto è tutto sfasciato, ma pare che l’assicurazione lo risarcirà. E’ un uomo triste, annoiato e probabilmente depresso. Mi parla molto del “galian” il fumo con il narghilè, che pratica abbastanza spesso. Il suo più grande desiderio, però, sarebbe quello di poter bere, insieme a me, del whisky. Mi dice che forse domani verrà a Teheran per delle pratiche da sbrigare e, se gli sarà possibile, mi accompagnerà a visitare la città. Mi scrive il suo numero di cellulare: non ha internet. Dopo la partenza, lo chiamo per conoscere il prezzo del taxi per raggiungere l’hotel di Teheran: mi risponde la moglie, direttamente dal cellulare del marito. Il taxista di Teheran è simpatico, parla due-tre parole d’inglese e mi porta lo zaino grande fino in camera. Più tardi mi accorgerò che mi aveva chiesto il doppio del prezzo. L’alberghetto è semplice, pulito e molto accogliente. Costa 8,00 euro per notte ed ha il bagno interno alla stanza. All’entrata ci sono tre sportelli: uno per ogni hotel dello stesso edificio; molto probabilmente della stessa scala, ma situati in piani diversi. Sono circa le 17:00. Faccio un giro sotto la pioggia e utilizzo per la prima volta l’ombrello che mi son portata nello zaino, per oltre due mesi, senza mai averne bisogno. Sono affamata, ma qui è quasi impossibile, per me, trovare dei cibi che mi piacciano. Sono anni ormai che non mangio carne , e qui, in Iran, è difficile trovare dei piatti alternativi. L’altra sera, al ristorante dell’hotel di Kashan non ho avuto altra scelta che delle zucchine farcite con le prugne, cucinate all’agrodolce. Un piatto terribilmente nauseante, per me, ed anche costoso. La sera prima, in un altro ristorante, per lo stesso prezzo, ho preso una specie di frittata di spinaci, acquosa ed insapore. I cibi che gradisco di più qui, in Iran, sono i “felafel”, le patate fritte, la minestra verde con gli spaghetti chiamata “ash”, i funghi fritti e il miscuglio di granoturco lesso, riso e formaggio fuso. Le colazioni degli hotel, per me, sono a base di marmellata, miele, pane, biscotti, yoghurt, caffè con latte se c’è, oppure del the. La maggior parte delle persone, per la colazione, sceglie: delle uova sode, delle verdure, dei formaggi e il the come bevanda. Rientro all’ostello, con gli abiti inzuppati d’acqua. Mi metto a scrivere il diario sul tavolo della sala da pranzo. Vorrei trovare una conferma sul nome della zuppa verde, ma nessuno capisce quello che chiedo. Il ragazzo che sta al banco delle bibite capisce che vorrei cenare con la minestra, altri clienti non comprendono cosa voglio sapere. Il ragazzo del banco si fa in quattro per trovare il traduttore su internet. Poi, mi fa parlare, ma ancora, nonostante la traduzione, non riusciamo a capirci. Finalmente arriva uno dei tre manager dell’hotel, in ciabatte da casa. E’ un ragazzo di 27 anni, magro, annoiato, triste e depresso, ma è l’unico che parla l’inglese. Lui, oltre alla spiegazione del corretto nome della minestra verde, che si chiama “ash”, mi dirà che qui in Iran non insegnano nessuna lingua straniera nelle scuole pubbliche ed è per questo che pochissimi parlano l’inglese. Lui è del Kurdistan iraniano e vive praticamente qui, nell’hotel. Ha frequentato l’università di Teheran ed è laureato in informatica, ma i suoi studi si sono svolti solamente nella lingua persiana. L’inglese l’ha imparato per conto suo, ma non lo sa scrivere correttamente. Questo giovane, mi parlerà a lungo anche del suo desiderio di uscire dall’Iran per andare a lavorare altrove. Lui dice che la situazione politica qui è molto restrittiva per chi non ha denaro. Per ottenere un visto lavorativo, di un anno, per l’Europa, servirebbero circa 10 mila euro. Non ho capito bene se sia possibile ottenere il visto dal governo legalmente, pagando quella somma, oppure se esista soltanto l’opportunità di versare quei soldi per un matrimonio combinato con una straniera. Il giovane, mi racconta anche che qui a Teheran è vietato fumare il “galian”, il classico “narghilè” turco, bere alcolici ed anche incontrarsi con una ragazza prima del matrimonio. Pena l’arresto, secondo quanto mi riferisce questo manager.

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